La precarietà è una realtà comune per molti insegnanti di sostegno. Alcuni trovano incarichi annuali grazie alle graduatorie, mentre altri, pur vincendo il concorso, sono costretti a trasferirsi lontano da casa. “Sono tre anni che lavoro al Nord, lontana dalla mia famiglia. Guadagno meno e mi sento sempre più sola”, confida un’insegnante. Per altri, la situazione è ancora più incerta: “Ogni anno attendo fino all’ultimo per sapere se avrò una cattedra”.
A pesare su chi lavora nel sostegno è anche la mancanza di un riconoscimento chiaro dell’esperienza maturata. I docenti con anni di servizio temono di essere superati da chi ha appena ottenuto la specializzazione, ma non ha ancora avuto esperienza diretta con gli studenti con disabilità. “Non ho il TFA, ma ho seguito decine di alunni con bisogni educativi speciali. Perché il mio lavoro vale meno di un pezzo di carta?”, si chiede un docente con esperienza pluriennale.
Il sistema di reclutamento e formazione degli insegnanti di sostegno è spesso contraddittorio. Mentre alcuni faticano per ottenere la specializzazione, altri riescono a ottenere certificazioni con corsi online di dubbia qualità. “Conosco colleghi che hanno preso la certificazione di inglese in pochi giorni, mentre io ho studiato per mesi”, racconta un’insegnante.
L’inclusione scolastica è un obiettivo fondamentale, ma senza un riconoscimento equo delle competenze – che siano acquisite attraverso titoli formali o esperienza diretta – il rischio è di penalizzare gli studenti stessi. Eppure, tra ostacoli burocratici e percorsi incerti, la passione per questo lavoro resta il motore di molti docenti. “Nonostante tutto, non rinuncerei mai a questo lavoro. Perché alla fine, ciò che conta davvero è fare la differenza nella vita degli studenti”.