Concorso riservato DS: la risposta degli aspiranti Digirenti Scolastici alla redazione de ‘La Tecnica della Scuola’

Il comunicato in risposta ad un articolo de "La Tecnica della Scuola" da parte di circa 500 docenti aspitanti nelle graduatorie del Concorso riservato DS

Corso Concorso Riservato per Dirigenti Scolastici
Corso Concorso Riservato per Dirigenti Scolastici

Riceviamo e pubblichiamo un lungo contributo giunto in redazione da parte di circa 500 docenti, aspiranti Dirigenti inseriti nella graduatoria del Concorso riservato DS. L’articolo, a firma di Gioconda Martucci e Giovanni Piccirella, riguarda i titoli culturali e professionali del Corso-Concorso riservato ai Dirigenti Scolastici. Più in particolare, il contenuto è di fatto una risposta ad un articolo pubblicato dalla redazione de ‘La Tecnica della Scuola‘ lo scorso 15 Settembre, che per completezza di informazione viene di seguito condiviso.

Concorso riservato DS: l’informazione online e a mezzo stampa è chiarificatrice o fuorviante?

In questi giorni, specialmente sulle riviste specializzate della scuola, stanno comparendo tanti articoli, in relazione ai numerosi contenziosi avverso la graduatoria del concorso riservato Dirigenti Scolastici, in particolare i due filoni dei ricorsi che hanno comportato una sospensiva della stessa. Questi numerosi articoli però, invece che aiutare il lettore a chiarirsi le idee su una vicenda alquanto ingarbugliata persino per gli stessi attori interessati (l’Amministrazione, la Giustizia, gli avvocati che fanno e disfanno ricorsi, il personale scolastico coinvolto), a volte lo confondono di più. Perché succede?

In alcuni casi, soprattutto negli organi di stampa a tiratura nazionale, vi sono articoli scritti da volenterosi giornalisti, non esperti di scuola, che arrivano spesso a confondere il concorso riservato e quello ordinario, anch’esso con la propria sfilza di contenziosi: ciò non aiuta il lettore ad orientarsi. Altre volte sono volutamente fuorvianti, e compare una evidente connotazione politicizzata contro l’attuale Governo, che comunque ha avuto il grande e oggettivo merito di raccogliere la patata bollente del concorso Dirigenti Scolastici 2017, foriero di oltre 2000 ricorsi individuali o collettivi, trovando una soluzione politica ad una situazione che si protraeva da oltre 5 anni. Però in realtà la fonte di maggior confusione è costituita da articoli come quello comparso il 18 settembre sulla rivista Tecnica della Scuola, a nome di un gruppo di sedicenti “candidati a difesa della graduatoria”, relativo alla camera di consiglio del TAR dell’8 ottobre, in cui verrà discusso il metodo di valutazione alla base della graduatoria, ossia la proporzione con la quale il voto della prova e il punteggio dei titoli culturali e professionali debbano essere sommati.

In questo articolo vengono propagandate due “verità” di base: l’idea che una prova a quiz possa, da sola o quasi, essere valida per selezionare un Dirigente Scolastico, e un’altra più specificatamente relativa alla normativa, secondo la quale, in sintesi, sarebbe stato corretto l’operato del MIM di forzare l’interpretazione dell’art. 9, applicando assolutamente il DPR 487/94, a tutto discapito di quanto previsto dal bando, che in qualità di lex specialis prevedeva una speciale procedura di ammissione al corso riservato, e quindi richiamava il DPR solo per quanto non espressamente previsto e non in senso estensivo. Volendo essere puntigliosi, traspare tra le righe anche una terza “verità”, comune purtroppo a diversi articoli scritti da gruppi contrapposti di concorrenti: l’autore sembra arrogarsi il monopolio della verità e della superiorità morale, accusando la controparte di “una lettura distorta del bando, una un’interpretazione non conforme al dispositivo e al suo senso letterale, che viene strumentalmente utilizzato per assecondare delle richieste infondate”.

Chiariamo subito un punto: anche noi che oggi scriviamo siamo portatori di interesse, ossia siamo il gruppo che ha l’interesse contrapposto, e che appoggia la richiesta di ripristino di una corretta valutazione dei titoli rispondente al D.M.107/23. Però intendiamo controbattere onestamente alle tesi esposte, utilizzando controdeduzioni il più possibile documentate, senza l’arroganza di pretendere una propria superiorità morale, senza spacciare le nostre tesi come “verità” assoluta, cercando nel contempo di aiutare il lettore a crearsi una propria opinione, senza confonderlo.

La terza “verità”

Pertanto rispondiamo subito alla terza “verità“: non intendiamo metterci su un piano di superiorità morale come la nostra controparte, perché abbiamo il massimo rispetto per tutti coloro che come noi hanno svolto la prova preselettiva del 6 maggio, in una situazione che si è rivelata pesante e non bene organizzata, iniziata 4 ore dopo l’orario previsto, con persone sedute a terra perché senza postazione, in condizioni ambientali difficili e che per questo ha sicuramente portato le persone più fragili a rendere meno. Tutti abbiamo superato quella prova, tutti abbiamo svolto il corso di formazione in tempi strettissimi, tutti abbiamo superato la prova finale, e quindi siamo stati valutati, in virtù del decreto ministeriale, come idonei a svolgere l’incarico di DS.

Abbiamo anche il massimo rispetto per i giudici, e non ci ergiamo a pontefici: noi abbiamo una chiara posizione, crediamo nella valorizzazione dei titoli nella misura prevista dal bando, stiamo lottando per farlo riconoscere, ma è solo il TAR che può decidere una cosa o l’altra, e ci atterremo a ciò che il TAR ed eventualmente il CDS decideranno. Speriamo solo una cosa, nell’interesse della scuola: che il TAR entri subito nel merito, emettendo velocemente una sentenza, anziché una ordinanza o una ulteriore sospensiva, perché le reggenze fanno male alla scuola, e si rischia che le assunzioni vengano rinviate al prossimo anno scolastico.

La prima “verità”

Torniamo alla prima “verità” della controparte, dove noi invece poniamo una domanda: lo svolgimento di una prova a risposte chiuse, da solo, basta a certificare, senza ombra di dubbio, che un candidato abbia sufficienti competenze per svolgere il delicato e difficile ruolo del DS? A nostro parere no, e infatti il legislatore, all’art. 9 comma 1 del decreto, prevede una graduatoria formata “sulla base del punteggio ottenuto nella prova di accesso al corso intensivo di formazione di cui al precedente articolo 7 e dei titoli valutabili ai sensi della Tabella A allegata al DM n. 138/2017 posseduti alla data del 29 dicembre 2017 e dei titoli di precedenza”. Detto in soldoni, il punteggio si otterrà sommando il punteggio della prova (espresso in decimi con mantenimento della frazione decimale, secondo l’art. 6 comma 2), e il punteggio dei titoli, valutati fino ad un massimo di 30 punti, secondo la richiamata Tabella A del 2017. Provando a dare un significato interpretativo del meccanismo della graduatoria, si evince secondo noi una chiara volontà del legislatore di dare importanza all’esperienza (incarichi ricoperti a scuola: collaboratore del DS, funzione strumentale ecc.) e alla formazione (ulteriori lauree, master universitari, dottorati di ricerca ecc.), tenendo conto della prova scritta soprattutto in funzione selettiva per l’accesso al corso di formazione, e limitandone quindi l’importanza, ai fini della graduatoria, ad un quarto del punteggio totale disponibile. Chi ha svolto per anni ad esempio il ruolo di collaboratore del DS, entrando nel merito di processi organizzativi, funzionali, decisionali, relazionali, a fianco del DS titolare, in una sorta di tutoraggio di natura pratico-operativa, ha sicuramente un bagaglio di esperienze e competenze che sono proprio quelle che dovrà quotidianamente mettere in campo una volta DS, con l’unica differenza di una responsabilità non diretta, quale solo il DS ha. Poiché il cosiddetto “vicepreside” ha un delicato rapporto fiduciario con il DS ed è da questi scelto, il mantenimento di questo rapporto per anni dipende dalle capacità e dall’impegno mostrato, in un ruolo complesso e che richiede cura e sacrifici quotidiani, nello svolgimento di un oscuro lavoro organizzativo e di cucitura e mediazione delle diverse componenti scolastiche. Nessun DS si circonda di collaboratori “pigri” o reclutati secondo criteri clientelari, perché scegliere la persona sbagliata può significare a volte pesanti conseguenze a livello di responsabilità, qualora il servizio scolastico ne subisca un danno. Se il DS sceglie la persona sbagliata, l’anno successivo, o addirittura anche durante l’anno, ha la facoltà di rimuoverla e di sceglierne un’altra.

Uno degli argomenti favoriti della controparte, non solo in questo articolo, è la parola “merito”, costituzionalmente sancito, e su questi articoli siamo a volte considerati come opportunisti che non vogliono il merito. In realtà, a costo di confondere ulteriormente l’ignaro lettore, anche noi crediamo nel merito. Ma cos’è il merito, e come valorizzarlo? Sicuramente è un merito aver preso una valutazione più alta di un altro candidato in una prova a quiz a risposta chiusa (dove comunque può esserci stata anche una componente di fortuna, e nell’attuale graduatoria aver risposto a due o tre quiz in più ha significato avanzare anche di 50/100 posizioni), o in una prova orale (dove anche vi sono comunque parametri imponderabili: la sorte di un argomento più o meno favorevole, l’aspetto emotivo, una eventuale valutazione soggettiva e non obiettiva che a volte può capitare). Ma secondo noi è un merito ancora più grande aver svolto l’attività di collaboratore del DS o aver conseguito un dottorato, avendo il legislatore stesso certificato proprio questo: nel sistema “10+30” previsto dal bando e che si sarebbe dovuto applicare, un dottorato di ricerca vale 3 punti, quanto 30 quiz giusti. Nella soluzione contestata dai ricorrenti, il Ministero, forse pressato dalle interrogazioni parlamentari dei giorni immediatamente precedenti, ha deciso di non applicare il dettato dell’art. 9 del D.M., operando in modo totalmente difforme dal testo del decreto: la divisione del punteggio dei titoli per 10, portando il totale a 3 anziché a 30 che era previsto dal bando. Ciò ha significato ad esempio che, nel caso di un candidato che abbia svolto il test scritto, un dottorato di ricerca è equiparato a 3 quesiti giusti: entrambi valgono 0,3 punti. Ossia un dottorato universitario di 3 o 4 anni, altamente formativo, svolto con studio e sacrificio dopo una selettiva prova di accesso a numero chiuso, vale come tre quiz giusti. Oppure un anno da collaboratore del DS, che comporta nell’anno di svolgimento almeno un migliaio di ore aggiuntive di lavoro, viene equiparato a 1,75 quiz giusti. Sì, avete capito bene: l’attività, a parer nostro, più formativa e indicativa delle competenze e capacità di svolgere il ruolo di DS, vale meno di due quiz corretti. Volendo poi considerare sia chi ha svolto la prova scritta che quella orale, una sola prova accerta il merito solo se è affiancata da altri indicatori, altrimenti di per sé non può essere determinante (e il legislatore, a nostro parere, aveva dato un peso maggiore ai titoli proprio per questo). Senza arrogarci il diritto della verità, avendo ora gli elementi per rispondere, riformuliamo la precedente domanda: qual è il vero merito? Chi aveva scritto il D.M.107/23 lo aveva trovato soprattutto nell’esperienza e competenza dei candidati, valorizzando i titoli culturali e professionali; il MIM, facendosi influenzare dai vari gruppi di pressione, ha rovesciato le carte all’atto della pubblicazione della graduatoria il 9 agosto, individuandolo soprattutto nel punteggio dei quiz; noi giriamo la domanda anche al lettore: rispondere a qualche quiz in più è maggiormente significativo, o lo è di più avere conseguito le esperienze, competenze e conoscenze proprie dell’attività di un DS, svolte in anni di studio o professione? E’ questo il senso della domanda che verrà posta ai giudici del TAR l’8 ottobre, e a cui solo loro dovranno e potranno rispondere nel merito, dopo aver vagliato tutte le posizioni (Ministero, ricorrenti e controinteressati).

La seconda “verità”

Rimane da esaminare la “seconda verità” propugnata dall’articolo, l’aspetto normativo della faccenda, e che rappresenta il punto più rilevante e sostanziale in relazione alla camera di consiglio del prossimo 8 ottobre: se la forzatura interpretativa del MIM operata utilizzando la valutazione “10+3”, anziché quella “10+30” prevista dal Decreto e disattesa nella graduatoria, sia corretta o meno. Non possiamo fare a meno di notare l’arrogante convinzione dell’autore di essere il depositario della verità assoluta: “La richiesta muove da una lettura distorta del bando (lex specialis), un’interpretazione non conforme al dispositivo e al suo senso letterale, che viene strumentalmente utilizzato per assecondare delle richieste infondate”. In barba al giudice monocratico che ha sospeso la graduatoria e che avrà pur trovato qualche ragione valida per farlo, in spregio al libero potere decisionale del TAR che dovrà pronunciarsi l’8 ottobre, la sentenza sembra essere già stata emessa dall’autore dell’articolo, dichiarando preventivamente infondata ogni ragione avversa. E noi che siamo la controparte, veniamo tacciati di non saper leggere il bando, o di distorcerlo a nostro piacimento.

Proviamo a spiegare le nostre ragioni, nel rispetto della posizione avversa, cercando di portare elementi concreti e il più possibile oggettivi, senza emettere sentenze preventive, come l’autore dell’articolo ha fatto.

E’ noto a tutti che il MIM non abbia applicato quanto previsto dall’art. 9 del bando, ossia non ha fatto la somma del punteggio della prova e dei titoli, ma ha ritenuto di correggere il punteggio dei titoli, portando il massimo per essi da 30 a 3 punti. La motivazione, esplicitata nelle premesse del DPIT 2187 del 9 agosto, è stata quella di utilizzare l’art. 11 del decreto (che però si sarebbe dovuto utilizzare solo “per quanto non previsto dal presente decreto”, mentre l’art. 9 era chiarissimo), per correggere quanto non rispondente al DPR 487/94, di una valutazione dei titoli che avrebbe ecceduto il limite di un terzo del punteggio totale.

Il MIM modificando in corsa il bando, ha fatto la cosa giusta o no? Per noi no:

  1. Come ricordato persino dall’autore dell’articolo, un bando è “lex specialis”. Poiché non ha spiegato cosa significa e cosa comporta, dando subito la sua sentenza draconiana, proviamo a farlo noi. La lex specialis, ossia una norma specifica nata per affrontare una situazione particolare o settoriale, come può essere un bando, si contrappone alla lex generalis, ossia la norma generale che regola il settore dove opera la lex specialis. Nel nostro caso, la lex specialis è il bando D.M.107/23, la lex generalis è il regolamento DPR487/94, di accesso all’impiego nelle pubbliche amministrazioni. A volte, la lex specialis nasce in una situazione complessa, come in questo caso: una situazione dove c’era bisogno di superare una sequenza infinita di contenziosi che si protraevano da anni, dando risposta all’esigenza del Paese di porre fine alle reggenze e trovare una soluzione alla necessità di reclutare nuovi DS. La lex specialis opera quindi in una situazione particolare e come tale nasce, derogando dalla lex generalis, come la giurisprudenza consolidata indica.

In definitiva, noi sosteniamo che il D.M. in qualità di lex specialis andava applicato così com’è, in deroga alla lex generalis, mentre il Ministero non lo ha applicato.

  • Una sentenza della Cassazione che afferma che le regole di un bando di concorso (lex specialis) sono intangibili una volta accettate dai partecipanti, perché il bando è considerato un’offerta al pubblico secondo l’art. 1336 del codice civile. Questo significa che né i partecipanti né l’amministrazione possono modificarle successivamente. Se si volevano contestare le regole, dovevano essere impugnate entro 90 giorni dalla pubblicazione del decreto ministeriale (D.M.). Modificare le regole del concorso durante il suo svolgimento è stato un errore da parte del Ministero, soprattutto perché è stato fatto tramite un decreto dipartimentale (un atto amministrativo inferiore al D.M.), che non aveva la competenza di farlo, configurando un possibile abuso di potere. E tutto ciò ha comportato la conseguenza che circa 200 candidati sono stati esclusi ingiustamente dalle prime 519 posizioni.
  • L’autore dell’articolo sostiene che l’art. 9 non fosse chiaro nella determinazione del punteggio come semplice somma, non utilizzando mai il termine “somma” nel testo del comma 1. La sentenza del TAR Lazio n. 1910 del 19 febbraio 2018 stabilisce il divieto di integrazione delle clausole dei bandi delle procedure concorsuali, e prescrive che il bando sia da interpretare in termini strettamente letterali. Le clausole del bando di concorso per l’accesso al pubblico impiego non possono essere assoggettate a un procedimento ermeneutico in funzione integrativa, diretto a evidenziare in esse pretesi significati impliciti o inespressi, dovendo, invece, essere interpretate secondo il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione. E qual è il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione? La graduatoria si forma “sulla base del punteggio ottenuto nella prova di accesso al corso intensivo di formazione… e dei titoli valutabili ai sensi della Tabella A”. Ossia massimo 10 punti per la prova, e massimo 30 punti per i titoli. Il significato immediatamente evincibile dal testo ci appare la somma dei due punteggi, quindi fino ad un massimo di 40 punti. Non era necessaria quindi, secondo noi, alcuna interpretazione ministeriale, tanto più che ci sembra nata sull’onda di pressioni politiche e di lobby interessate a quel tipo di valutazione, con i media prestatisi nei giorni precedenti alle “preoccupazioni” degli interessati. In ogni caso, non essendo depositari della verità assoluta, come sembra essere l’autore dell’articolo, ci affidiamo ai giudici del TAR, che serenamente chiariranno la questione.
  • Il Ministero, con la pubblicazione del DPIT del 9 agosto, allegato alla graduatoria, compiva un altro grave errore. Nelle premesse sosteneva la necessità di “procedere alla conversione su base decimale del punteggio attribuito ai titoli in conformità al punteggio della prova di cui all’articolo 5, comma 11-sexies del decretolegge n. 198 del 2022“. Non avrebbe dovuto, come precedentemente spiegato, interpretare una lex specialis discostandosene dal preciso dettame della somma dei due punteggi. Ma nel momento in cui poi lo ha comunque fatto, ha contraddetto se stesso, utilizzando una conversione in terzi anziché in decimi. Qualsiasi professore di matematica può spiegare che 30 convertito in decimi fa 10, e non 3. Una doppia e grave debacle ministeriale: si è ritenuto necessario (erroneamente perché è lex specialis ininterpretabile) interpretare l’art. 9, prevedendo una conversione in decimi del punteggio dei titoli, e si è poi convertito in terzi, contraddicendo se stessi. L’autore dell’articolo, poi, sembra voler ignorare il significato letterale in termini matematici del testo del decreto dipartimentale, e anche la provenienza della fonte ispiratrice del “10+10” (che è il decreto dipartimentale a firma Palumbo, non l’art. 6 del D.M.). Evidentemente in questo periodo va di moda interpretare ciò che è scritto molto chiaramente in termini matematici, oppure semplicemente l’autore dell’articolo potrebbe non aver compreso la ragione della richiesta del “10+10” e si è un po’ perso. In ogni caso, la “valutazione magnanima” proposta da alcuni gruppi di ricorrenti, che presentano ricorsi per la rivalutazione del punteggio, non è altro che una richiesta in subordine a quella principale: si richiede in via prioritaria al TAR di ripristinare il “10+30” previsto dal D.M., o in subordine, qualora il TAR decidesse di considerare valide le ragioni del MIM di aver considerato “necessario” interpretare l’art. 9 del D.M., almeno di rispettare quanto stabilito dallo stesso DPIT del 9 agosto, ossia la conversione in decimi del punteggio titoli, dando luogo ad un “10+10”.

Il lettore si sarà perso nel seguire queste quattro lunghe argomentazioni. Sintesi delle argomentazioni a confutazione della seconda “verità” Proviamo a riassumere per chiarezza:

  1. La lex generalis DPR 487/94 può intervenire solo dove la lex specialis DM 107/23 fosse lacunosa.
  2. Il Ministero ha per noi errato nel modificare in corsa le regole del gioco, in quanto immodificabili perché lex specialis, e lo ha fatto tra l’altro con un provvedimento di carattere subalterno al D.M., configurando tra l’altro un possibile abuso di potere.
  3. Il Ministero ha preteso di trovare significati impliciti o inespressi nell’art. 9 del bando, quando doveva limitarsi ad applicare il significato immediatamente evincibile dal tenore letterale delle parole e dalla loro connessione (che non avrebbe dovuto essere altro che la somma dei punteggi della prova e dei titoli), non sappiamo se per ragioni politiche o di azioni legali avanzate da gruppi di ricorrenti.
  4. Non contento, il Ministero ha commesso un doppio errore, sconfessando la stessa propria interpretazione dell’art. 9, convertendo in terzi anziché in decimi. Alcuni gruppi di ricorrenti, in subordine, sulla base del decreto dipartimentale, chiedono una via intermedia di valutazione, il “10+10”.

Conclusioni

Siamo giunti alla fine del nostro articolo, nel quale abbiamo cercato, pur propugnando le nostre convinzioni sull’argomento, di dare al lettore gli strumenti normativi e fattuali, per poter maturare la propria idea in relazione all’intricata vicenda del Concorso Riservato DS. Invitiamo quindi il paziente lettore ad un gioco: immaginare di avere il potere di decidere quale sia il criterio migliore o più meritocratico per assumere un DS, se dare priorità a competenze, esperienza, formazione, capacità relazionali guadagnate negli anni e nello stesso campo di azione del futuro incarico dirigenziale, oppure ad una prova selettiva a quiz, nella quale non sono misurate ad esempio l’esperienza o le capacità relazionali, e dove vi è innegabilmente una componente relativa alla fortuna.

Gli aspiranti dirigenti

“Difendiamo il D.M.107/23 e il curriculum del docente”

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